Al biennio delle scuole superiori continuò la mia fortuna, o il mio destino forse, nell’incontrare insegnanti di lettere uniche nel loro genere. La professoressa Liliana non era una che dettava titoli e compiti a caso.
Lei, in classe, faceva letteratura. Come in una sorta di trance narrativa, ci portava libri, li raccontava. Liberava le storie tra i banchi, collegava le vite di questo e quell’autore, ci insegnava a riconoscere lo stile, il tempo. Ascoltava, leggeva.
Difficile non rimanere colpiti dalla sua evidente passione di lettrice. Era un piacere starla a sentire, ancor più se nel sangue ti scorreva questa identica, meravigliosa follia.
Pamela o la virtù ricompensata, Candido, La ragazza di Bube, Due di due, La metamorfosi.
E ancora Verga, Pirandello, Giuseppe Dessì.
E poi… La trilogia di Italo Calvino.
Non è tutto rose e fiori.
Quanto ho odiato Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente.
Una noia mortale.
Che mi piacesse o meno ero stata educata a esser ligia al dovere. Ma quella volta, la volta in cui avrei dovuto eseguire la scheda di analisi de Il barone rampante, mentii. Presi la scorciatoia dell’internet, ahimè.
Pronta, bella e non scritta da me. Giusto la modifica di qualche parola. Chissà chi pensavo di ingannare, se non me stessa.
La mia compagna e amica fu decisamente più sincera.
“Daniela, hai fatto la scheda?”
“No, prof.”
“E perché?”
“Perché non l’ho letto”.
“E per quale motivo?”
“Perché non mi piace per niente.”
“Raccontami come mai…”
E così, chiacchierarono. Di motivazioni. Daniela ricevette il suo voto negativo per non aver svolto il compito ma io rimasi sorpresa dal tono della conversazione: uno scambio alla pari. Senza rabbia, recriminazioni, dispiaceri.
Via il superfluo, soltanto ancora una volta, la bellezza di un’altra lezione di letteratura.
Sono passati ventidue anni. (Potrei avere un mancamento nel pronunciare questa cifra).
Oggi, grazie all’ArgoCircolo Letterario e alle persone del gruppo di lettura InLibroVeritas, nello specifico Rita, ho girato l’ultima pagina de “Il barone rampante”.
L’ho letto.
Tutto.
Non vi farò la scheda di analisi, sono vecchia ormai per queste cose.
Però vi dirò cosa ho provato. E cosa ho capito.
Innanzitutto ho finalmente compreso da cima a fondo, l’immensità di Italo Calvino.
Ho capito che i classici hanno un orologio tutto loro.
A cinque pagine dalla fine ho sentito una stretta al cuore.
Dopo averlo evitato per così tanti anni, ora non sono pronta a salutare Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante.
Mi sono affezionata a lui, alla sua giovane e perdurante determinazione, alle avventure, alle emozioni. Mi sono riconosciuta in questa sua voglia di stare nel mondo, non importa se da una prospettiva insolita, ma connesso. Più presente a se stesso e agli altri di quanti camminano con i piedi per terra e lo sguardo pure.
Com’è che prima mi annoiava, non lo so. Anche se, a questo giro, sarò sincera: qualche riga l’ho scorsa velocemente, per continuare ad arrampicarmi dove più mi piaceva.
Perché, e l’ho capito con il tempo, leggere è questo per me.
Carissima professoressa Liliana, anche se quella volta barai come la peggiore delle imbroglione, ho portato a casa il suo insegnamento.
A lei, sicuramente, non interessava la burocrazia di una valutazione (che metodo orripilante mischiare numeri e persone).
Ciò che faceva, come tutte le insegnanti degne di portare questo nome, era piantare quei minuscoli semi di conoscenza e innaffiarli giorno dopo giorno.
Il resto è spettato a noi.
E da me c’è un giardino di terra, cielo, alberi, fiori, frutti, inchiostro e persone.
E grazie.
“Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.
©Erika Carta